LA PSICANALISI SECONDO
SCIACCHITANO

"TU PUOI SAPERE, LACANIANO"

creata il 14 ottobre 2011 aggiornata il 17 febbraio 2012

 

 

Presento alcune mie riflessioni personali sul lacanismo, che fanno seguito alla pagina

Lacan falso maestro.

Ho impiegato vent’anni, dal 1977, l'anno della mia passe a Parigi presso l'EFP, la scuola di Lacan, al 1997, l'anno della mia uscita dall’ultima associazione lacaniana, per liquidare (si dice così) il mio transfert su Lacan, cioè per uscire dallo stato ipnotico che Lacan, notoriamente grande ipnotizzatore di giovani analisti, aveva prodotto su di me. Ne sono uscito con un piccolo guadagno sul versante scientifico, frutto di un’enorme e faticosa elaborazione di vissuti soggettivi profondamente determinanti. Tutta la mia vicenda lacaniana si riassume nell'enunciato lapidario:

Lacan fu un falso maestro.

Ribadisco: fu un grande falso maestro; fu all’altezza dei grandi falsi maestri del passato: i Platone, gli Hegel e i Marx, ma non fu meno falso di loro. Tutto quello che insegnò della psicanalisi – e fu tanto: dal tempo logico all’oggetto a, in teoria; dal soggetto supposto sapere all'origine del transfert fino alle sedute di durata variabile, in pratica – lo insegnò falsamente. Lacan fu un falso maestro proprio in quanto fu un vero maestro. Non gli interessava la cosa insegnata; poteva essere qualunque: dalla ricetta di cucina alle elucubrazioni sulla scrittura cinese; gli interessava esclusivamente insegnare e avere degli allievi. Gli allievi – mes élèves – erano il suo sintomo, il suo godimento sadico. Non sto a dire il godimento masochista degli allievi. Dico semplicemente un truismo: in psicanalisi non c'è concettualmente posto per maestri, se è vero che la psicanalisi si fonda sul sapere inconscio, cioè su un sapere che non si sa di sapere. Se, quindi, spunta un maestro che ti dice com'è l'inconscio, quel maestro non è analista, perché cancella ipso facto lo stesso inconscio. Allora, se Lacan fu analista, fu falso maestro; se fu maestro, non fu analista.

Comunque siano andate le cose, Lacan elaborò una dottrina, che gli allievi dovevano solo confermare. E Lacan fornì loro gli strumenti per farlo. Si chiamavano cartel. Erano piccoli gruppi di studio finalizzati al consolidamento e alla diffusione della sua dottrina dentro e fuori dall'ortus conclusus della scuola. A tal fine facevano affidamento sull'inserimento nel cartel della funzione del cosiddetto più uno. Era un quarto o quinto personaggio rispetto al piccolo gruppo; poteva essere un non "scolastico", il quale non aveva la funzione di riferimento autorevole alla dottrina, che poteva addirittura ignorare, ma rappresentava il momento di articolazione della dottrina con ciò che dalla dottrina stessa non era ancora previsto. Un'invenzione politicamente astuta, che bypassava la falsicazione, riconfermando la dottrina dall'esterno. La conferma in estensione sospendeva e rimandava la confutazione in intensione. Ma il difetto era nel manico. Come in qualsiasi setta e per qualsiasi dottrina, dentro l'EFP l'elaborazione del maestro si poteva solo confermare attraverso infiniti commenti e reinterpretazioni; non era prevista la falsificazione; quindi, come l’elaborazione di tanti altri maestri di psicanalisi, a cominciare proprio da Freud, anche quella di Lacan non fu mai scientifica. In questo senso dico che Lacan fu falso maestro, intendendo qui "falso" come sinonimo di "non scientifico" e non come il contrario di vero. Tanti falsi insegnamenti di Lacan furono veri insegnamenti, ma furono falsi in quanto infalsificabili. Come si fa a falsificare la serie sterminata dei suoi enunciati logocentrici (tautologici): dall'inconscio strutturato come un linguaggio al significante che rappresenta il soggetto per un altro significante? Spero che questa precisazione riduca praticamente a un livello per i miei colleghi lacaniani sopportabile la connotazione polemica di queste riflessioni.

Aggiungo che, paradossalmente, la falsità dell'insegnamento lacaniano fu la chiave del suo successo. Lacan, infatti, faceva piazza pulita di ogni parvenza di scientificità dell'elaborazione freudiana: il riferimento al fattore quantitativo, via; la termodinamica della libido, via; le considerazioni intorno alla dinamica degli investimenti, via. Se togli considerazioni scientifiche, la gente ti è grata. La scienza è quantitativa, ma la mia anima è qualitativa; la scienza è oggettiva, ma la mia anima è soggettiva; la scienza è deterministica e regolata da leggi ferree, ma la mia anima è libera – così ragiona l'umanista, che si avvicina alla psicanalisi. Dopo l'umanista è grato a Lacan l'uomo della strada, che può chiedere un'analisi, sapendo di non dover intraprendere un faticoso percorso scientifico. Il travestimento topologico della dottrina lacaniana non spaventa; si sa che non ha nulla di scientifico; è solo un trucco per la trasmettere la dottrina senza fraintendimenti esegetici; e poi conferisce all'arida dottrina un pizzico di snobismo, come le altre bizzarrie dottrinarie, che fa fino assimilare, in quanto danno un tocco di esoterismo a tutta la vicenda psicanalitica.

Devo lo stimolo a queste riflessioni a un’esperienza casuale, fatta in seguito all’invito di un amico – purtroppo recentemente scomparso – alla seduta inaugurale dell’anno accademico di una delle ultime “scuole di psicanalisi”. Era tanto tempo che non assistevo a uno spettacolo del genere. Ne avevo dimenticato la liturgia. Per tutta la serata, o per lo meno per tutto il tempo che ho resistito ad ascoltare gli oratori lì convocati, non si è fatto altro che parlare della scuola in termini elogiativi. Un oratore rievocò addirittura il trauma per gli allievi, ormai pateticamente anziani, dovuto alla dissoluzione dell’Ecole Freudienne de Paris, la scuola fondata dal maestro Lacan. Come facevano gli allievi senza più una scuola? Erano ontologicamente persi – disperati. Ma per fortuna l'allievo prediletto, nonché genero, scongiurò il maestro di rifondare un'altra scuola per i poveri diseredati. Lo sciagurato acconsentì.

Storie da dimenticare. Perché le raccontano ancora alle nostre esauste orecchie? Nel caso la toccante rievocazione servì all'oratore per evitare di toccare la questione della funzione del maestro dentro la scuola. Forse val la pena che precisi che, all'epoca della dissoluzione dell'EFP, io non ebbi all'epoca nessun trauma. Ero al limite di una profonda depressione e, quindi, ero indifferente a eventi istituzionali esterni ed estrinseci rispetto alla mia situazione soggettiva. Stavo aspettando il "verdetto" della mia passe, che in realtà non arrivò mai, perché la scuola di Lacan aveva cominciato a dissolversi ben prima della dissoluzione ufficiale, proprio grazie al mancato funzionamento del rito di cooptazione (o rito di passaggio) della passe. A me non andava male che la scuola svanisse, perché ai miei occhi si stagliava più limpida e meglio definita la figura solitaria e incompresa del maestro. Non sentivo il bisogno di nuove scuole.

Ma la domanda che ora mi pongo mi sembra più rilevante delle considerazioni personali. Mi chiedo come si possa parlare di scuola senza affrontare la questione del maestro. Ragionevolmente non si può. Se lo si fa, la ragione è semplice: si vuole rimanere ignoranti. Si vuole restare all’interno del transfert non analizzato verso il maestro in nome di un’ostinata volontà di ignoranza, a questo punto più collettiva che individuale. Non si vuole uscire dai limiti dottrinari imposti d'autorità dal maestro ai propri allievi. La storia si ripete, ma non insegna nulla: l'ipse dixit preclude da sempre l'accesso al chiarimento scientifico, quando non porta l'uomo di scienza davanti al tribunale dell'Inquisizione.

Quella sera, ascoltando le inezie presentate dai docenti della scuola – facezie per lo più arcinote e ritualistiche – pensavo: “Qui ci sono circa settanta persone che partecipano a uno dei tanti riti di appartenenza praticati in tutte le scuole: seminari, congressi, presentazioni di libri ecc. Nessuno di loro, tranne tre (sic) eccezioni, ha conosciuto Lacan. Eppure tutti lacaneggiano e, se così si può dire, tutti vogliono essere lacaneggiati, nel senso che tutti vogliono essere ingannati e confermati nella propria volontà di ignoranza, addobbata dalle vesti curiali della dottrina lacaniana con tutti i fronzoli lacanisti.

Tu – continuavo a rimuginare tra me e me – hai impiegato vent’anni per uscire dal transfert con Lacan, proprio perché hai fatto l’esperienza sconvolgente del transfert con lui. Il transfert è resistenza, si sa dopo Freud. Ma attraversando il transfert si può, con una probabilità veramente minuscola, ma pur sempre diversa da zero, arrivare a guadagnare qualcosa del sapere rimosso nell’inconscio. A te è successo, per fortuna. Ma questa gente accanto a te, che non ha mai vissuto il transfert con Lacan, come farà a uscire dal lacanismo; come farà a schiodarsi dalla testa la dottrina che Lacan ha falsamente insegnato?”

Per  cortesia non ho posto la questione all’amico che mi aveva invitato e che sedeva al tavolo degli oratori. Non volevo scandalizzare nessuno e, soprattutto, non volevo suscitare sterili polemiche. Avrebbero pensato che stavo sviluppando un transfert negativo, che il maestro chiamava paranoia postanalitica. Me ne sono uscito alla chetichella dalla sala, lasciando che i fervorosi volontari dell’ignoranza si dedicassero pacificamente al loro rito di appartenenza. Non li ho disturbati – sono un gran signore, io.

La mattina dopo mi venne in mente un’analogia politica riguardante un altro grande maestro. Vale la pena riferirla.
Marx morì esule a Londra nel 1883. Il marxismo sopravvisse grazie ai partiti comunisti, da lui fondati. Con il tempo quei partiti divennero soggetti collettivi formati da soggetti individuali, che non avevano conosciuto Marx, ma avevano appreso l’elaborazione dottrinaria “portata avanti” (si diceva così nel '68) da certi suoi presbiteri: Lenin, Stalin e Mao. Costoro, infatti, avevano ben capito che non era importante il maestro; importanti erano la scuola e certi libretti colorati. La scuola marxista crollò 106 anni dopo la morte del maestro sotto le macerie prodotte dal crollo del muro di Berlino e del partito che da tale muro era riparato. Di quelle macerie non resta più nulla. Solerti Trummerfrauen hanno ripulito la piazza una seconda volta. Al Brandenburger Tor si passa in entrambi i sensi. Il check point Charlie esiste solo nel ricordo. Di Marx nessuno parla più volentieri. Solo il nostro precedente premier rievocava di tanto in tanto i "comunisti", che mangiano i bambini, quando era a corto di argomenti che facessero presa sul popolino.

Se tanto mi dà tanto, provo a fare un calcolo tanto bizzarro quanto semplice, forse significativo. Lacan morì nel 1981. 1981 + 106 = 2087. Nel 2087 non ci saranno più scuole lacaniane. Saranno crollate tutte. Io non sarò lì a raccogliere tristemente le macerie (prevedo infatti che ci sarà scarso entusiasmo popolare per un simile evento), ma è come se fossi già lì. Perché ho conosciuto Lacan.

Concludo queste riflessioni con un'osservazione che dovrebbe estinguere definitivamente ogni riferimento polemico alla figura di Lacan – parce sepulto. Infatti, queste mie riflessioni sul lacanismo si applicano altrettanto bene a qualsiasi altro ismo che ha inquinato il movimento psicanalitico, a cominciare dal primo, il freudismo, seguito da tutti gli altri: l'adlerismo, lo junghismo, il kleinismo ecc., visti sia come sintomi dei rispettivi fondatori sia come effetti dell'assetto verificazionista e conservatore delle rispettive scuole. Infatti, se nella scuola manca la possibilità di confutare il verbo, la falsificazione diventa automaticamente un'eresia, sulla quale il maestro dissidente fonda una nuova scuola, strutturata in modo formalmente identico alla scuola di provenienza che pure si contesta. In fondo, anche l'eresia è una forma di conservazione, perché contestare non è falsificare e falsificare è molto più difficile di contestare.

Aggiungo a queste considerazioni generali un'ultima osservazione. Nel suo essere falso maestro Lacan non fu minimamente originale. La falsità della sua maestria non fu merito suo, perché è un dato strutturale, comune a tutte le maestrie. E' la maestria in generale a essere "falsa" nel senso detto sopra. Quando predicava ai suoi discepoli: "Nessuno di voi si faccia chiamare maestro" (Matteo 23,8), Gesù, il "vero maestro", sapeva bene quale menzogna "diabolica" si nascondesse dietro alle parole del maestro, che pretende far conoscere la differenza tra il bene e il male.

In campo psicanalitico il primo maestro a introdurre un falso insegnamento (nel suo caso in forma pura, indipendentemente da ersie e scissioni) fu proprio il fondatore della psicanalisi. Proprio lui, che inventò lo psichicamente inconscio, la rimozione originaria e la Nachträglichkeit, azzerò la portata delle proprie intuizioni scientifiche con il falso insegnamento della metapsicologia, che non fu una scienza ma una mitologia, per non parlare della mitologia edipica propriamente detta, su cui il primo maestro fondava la cosiddetta pratica clinica. Sulla scia di Freud seguirono tanti altri falsi maestri e... maestre. E dopo i grandi maestri seguì la piaga dei piccoli maestri, che si sono spacciati come i veri interpreti del pensiero dei rispettivi grandi maestri. Non faccio nomi né dei grandi né dei piccoli maestri per il principio di carità.

Poco male in teoria, molto male in pratica, queste storie di maestri che gli analisti hanno patito sulla propria pelle. Sarebbe poco male se il transfert verso i maestri venisse analizzato dagli allievi, ma questo succede rarissimamente, anche perché sistematicamente ostacolato dall'intrusione e dalla prepotenza intellettuale dei piccoli maestri, esercitata sull'intelligenza degli allievi catecumeni, sistematicamente boicottata durante il cosiddetto periodo di formazione. Non se ne esce. L'ignoranza si automantiene sempre. Se poi non si ha alle spalle una solida formazione scientifica, il discorso è definitivamente chiuso.

Questo è il male che rende ogni maestro falso:

l'istituzione e la conservazione indefinita, come in freezer, dell'ignoranza.

Basti pensare all'ignoranza istituita da Aristotele nel suo Liceo nel IV sec a.C. e conservata dalla Scolastica fino ai tempi di Galilei e Cartesio nel XVII sec. d.C. Limitandoci al campo degli analisti, questo discorso ha un prolungamento pratico inevitabile e urgente:

Quale politica per la psicanalisi?

Qualche indicazione di risposta ho dato nell'intervista ad Alessandra Guerra a proposito della questione della formazione dell'analista. Che formazione ci può essere in presenza dell'autorità magistrale?

*

Do di seguito alcuni suggerimenti sulla possibilità di uscire dal transfert magistrale, sfruttando alcune indicazioni fornite dallo stesso Lacan.

Il transfert sul maestro è inevitabile. Questo è un teorema della dottrina lacaniana: si ama chi si suppone che sappia qualcosa del desiderio. Succede in analisi, succede fuori analisi. Il teorema è un caposaldo della teoria che postula come assioma di partenza la volontà di ignoranza. Tu ami chi sa, perché non ti dica quel che sa, ma se lo tenga per sé. Se te lo svela, rischia di trasformare l'amore in odio. E' quel che succede in analisi con il transfert negativo e nella scuola con gli allievi eretici. Freud lo sapeva bene e lo insegnava pure: il transfert è resistenza al sapere.

In generale, l'amore si converte in odio quando la supposizione sul sapere cambia segno: ami chi supponi sappia, odii chi supponi non sappia. L'odio per lo straniero, per l'extracomunitario tanto quanto per il terrone o viceversa per il polentone, ha questa base: tu supponi che "lui" non abbia un sapere analogo al tuo, che abbia un sapere diverso dal tuo, magari che in virtù di tale sapere sia capace di esercitare strani sortilegi sulla tua vita. In analisi le oscillazioni tra supposizione di sapere e supposizione di non sapere sono la regola. Alimentano l'odioamore transferale, che poeticamente Lacan chiamava hainemaoration.

Come si esce dalla dialettica transferale?

Come si esce da ogni congettura, cioè uscendo dal regime suppositivo, falsificando la congettura, che ne sta alla base, non potendosi confermare empiricamente nessuna congettura. Nel caso si tratta o di falsificare la congettura che l'altro sappia o di falsificare la congettura che l'altro non sappia. Falsificando la congettura che l'analista sappia si liquida il transfert positivo; falsificando la congettura che l'analista non sappia si liquida il transfert negativo. In entrambi i casi si entra in un regime di indifferenza nei confronti dell'analista, che è il guadagno soggettivo che permette di autonomizzarsi da lui e di terminare l'analisi.

Nel caso di Lacan io ho guadagnato l'indifferenza rispetto a Lacan riconoscendo che i suoi matemi non avevano nulla di matematico: enunciati senza dimostrazioni, assiomi senza deduzioni di teoremi, matematica senza matematica. Questa che riferisco è solo la conclusione di un lungo processo di elaborazione del falso (vuoto) matematismo di Lacan, durante il quale ho dovuto sviluppare miei matemi personali, una vera e propria matematica che credo più matematica e meno falsa (meno vuota) di quella di Lacan.

Lo riconosco senza difficoltà: me l'ha insegnato Lacan, il falso maestro. In epoca scientifica il falso è fecondo.

*

Domenica 12 febbraio 2012, sul domenicale del "Sole 24 ore", Gilberto Corbellini, noto biologo, che un paio di anni fa ha scritto un libretto sul perché non bisogna avere paura degli scienziati (Perché gli scienziati non sono pericolosi: scienza, etica e politica, Longanesi, Milano 2009), ha firmato un virulento corsivo contro il lacanismo. Mi correggo: ha firmato un paranoico corsivo contro i lacaniani, dal titolo: L'autismo dei lacaniani, che non riconoscerebbero la natura di malattia genetica dell'autismo.

Quasi sicuramente Corbellini non bazzica questo sito. Altrimenti saprebbe che un vero uomo di scienza non attacca briga con le persone. Allo scienziato interessano le idee, non i loro portatori. Ma se è un uomo, ha certamente le sue debolezze e ogni tanto ci casca. Io, che sono un uomo di scienza, in questo caso non ci casco. Non mi interessano le debolezze personali del professor Corbellini; mi interessano le debolezze del pensiero che esprime.

Quella che in questa pagina mi preme rilevare è una debolezza molto diffusa: l'idea che la medicina sia una scienza. E' una concezione molto diffusa: ci caddero Pinel, Freud, Basaglia, tanto per citare dei medici vicini all'aspetto psi della vita umana. Freud e Basaglia ne erano tanto intimamente convinti che se la presero con i medici, invece che con la medicina. Sono gli psichiatri che segregano i folli, accusava Basaglia; sono i medici che esercitano la psicanalisi in modo selvaggio, senza conformarsi ai suoi principi, strillava Freud. Nessuno di loro mise mai in discussione la medicina, perché è una scienza veneranda... da Ippocrate in poi. Rimando alla pagina

Perché la medicina non è scienza

chi voglia chiarirsi le idee in merito.

E ora mi tocca leggere Corbellini, che scrive:

"Nell'età della medicina basata sulle prove di efficacia, un medico deve essere in grado di dimostrare empiricamente che le sue cure funzionano. Altrimenti è un ciarlatano. E va contro il vincolo deontologico di non fare del male ai pazienti e fornire i migliori trattamenti esistenti."

Questo è un argomento ad personam, degno di un PM, non di un uomo di scienza. Non volendo andare ad Corbellinum, non lo contesto. Dico solo che dal punto di vista epistemologico è un argomento debole. Gronda empirismo. Ignora che la scienza moderna non è solo empirica, come ai tempi di Aristotele e Bacone. La scienza moderna si fa a partire da principi. La fisica galileiana parte dal principio di inerzia; la biologia darwiniana dal principio della discendenza con modificazioni; la psicanalisi freudiana dall'esistenza di un sapere che non si sa di sapere. Questi principi sono metaempirici: non si confermano né si falsificano; si adottano perché sono fecondi di conseguenze, queste sì falsificabili. Mi piacerebbe sapere, allora, da quali principi parte la scienza corbellina.

Personalmente non condivido la posizione dei colleghi che si piccano di "difendere" la psicanalisi. L'eccesso di difesa è sul medio periodo una strategia perdente. Se poi i nemici da cui difendersi sono quelli che scrivono sul domenicale del Sole...

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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